lunedì 31 agosto 2015

Quando torni

 
 
I veri viaggiatori dicono sempre "andiamo", e non sanno perché. Forse Baudelaire aveva ragione, oppure è solo il fascino della sua espressione poetica, a convincerci.
Io non viaggio, non giro il mondo e non pianifico il viaggio successivo al mio rientro.
Tutt'altro.
 
C'è chi parla di "tristezza del ritorno", di "blues del viaggiatore", una metafora azzeccata - dicono - ma io l'ho scoperta per caso questa mattina, sguazzando in rete. Un post curioso, scritto da una travel blogger, nel quale si fa una stima della tristezza del ritorno in base alla durata del viaggio.
 
Eppure io quando torno sto bene.
Vero è che l'idea del viaggio è molto cambiata, rispetto a ieri. A quando c'era l'euforia condivisa con gli amici, tutti ingenui e carichi, attirati come calamite dall'avventura, dalla possibilità di innamorarsi e poi soffrire, per quell'amore destinato a finire, a diventare il ricordo di un'estate.
Tornando a Baudelaire, io lo sapevo perché, quando a sedici anni dicevo "andiamo!".
Era un perché distante anni luce da quello di oggi. Era il perché di chi non aveva paura e nemmeno pretese. Mica come oggi, che prima di partire passiamo mesi su trippadvaisor e contiamo le stellette, facciamo la media...
 
L'euforia dell'andata non è mai tanto diversa dallo stato d'animo del ritorno. Non saprei come definirlo, forse un'euforia letta al contrario, che non diventa tristezza e non ti deprime. Mi basta guardare le finestre e contare le luci accese, provarci, e capire che quegli sguardi sono obbligati, di passaggio. Che la luce che arriva da quelle case piccole e tutte uguali, è una luce straniera.
Ma di lei conservo sempre un bel ricordo. 
Dal finestrino si dipanano storie, dal vetro scivolano i pensieri legati al viaggio, quasi finito, e già nelle grinfie di un tempo imperfetto.
Ma non ha il sapore della tristezza, non sento quel "blues"...
Quando torno da un viaggio torno soprattutto in "me".
Le abitudini che prima di partire maledicevi, la casa, il lavoro, tornano a dire chi sei davvero. A parlare per te, a ricordarti che in fondo la te del ritorno non ti dispiace affatto.
 
Ed è vero.
Mi piace tornare perché mi manca sedermi sullo sgabello in cucina, e scrivere. Scrivere la mattina presto, mentre tutti dormono. Mi manca il carrello giallo dell'Iper Dem, il sorriso del tizio che mi chiama "Dottoressa" e mi sorride, e non mi ha mai venduto un calzino - non ancora...
Mi manca sentirmi stanca di tutto, il traffico sulla Pontina, io che puntualmente in macchina grido al mondo: "ma dove cazzo andate tutti a quest'ora?".
Prima di partire vorrei che tutto il mondo sparisse, e mi basta tornare per capire che non è affatto così, perché senza quel mondo io non potrei stare.
L'andata è piena di euforia, di quelle che ti bagnano di sale e sole al solo pensiero.
Ma il ritorno parla sempre di te.

venerdì 21 agosto 2015

Valigia piena e poi l'autunno

 
 
Partire a fine agosto ha il sapore di una valigia piena di aspettative e voglia di ricominciare. Non so voi, ma io ogni anno mi prometto qualcosa.
Settembre preannuncia l'autunno, mi ritrovo a contare i giorni che mancano a Natale, sembro ancora una bambina fiera del suo calendario dell'Avvento.
 
Quest'anno mi lascio alle spalle un'estate rovente, e comincio ad alleggerire l'aria soffiando via tutto ciò che resterà indietro, per fare spazio al nuovo, comprese tutte le incertezze e il gusto dell'ignoto.
Domani parto, e per la prima volta arrivo già a pensare al viaggio di ritorno. Sarà che il rientro significa poi l'inizio di un nuovo lavoro, sarà che a metà settembre ricomincerà la scuola (Dio quanto mi mancano le mattine in solitaria!!!), sarà che il mio contratto editoriale è stato firmato e ormai non resta che attendere...
 
L'attesa è come l'acqua, che riempie il nostro corpo in abbondanza, più della metà. E l'attesa riempie la nostra vita. Si aspetta sempre qualcosa.
 
Oggi aspetto domani, aspetto di guardare negli occhi un mare che ti prende e ti cambia. Aspetto di assaggiare quel sogno tanto atteso, scoprirne il gusto, toccarlo con mano, sentirlo mio, vero.
Il blog si prenderà una pausa e tornerà attivo al mio rientro. Be'? Via quei musi lunghi...torno tra una settimana, eh?
 
La valigia è piena e poi si ricomincia.
E poi quel sogno, la scuola, ritrovarsi sole la mattina.
E poi l'autunno. 

giovedì 20 agosto 2015

Ant-Man, piccolezza e dovizia

 
 
Di Peyton Reed ricordo con piacere la commedia diretta nel 2008, Yes Man, che aveva come protagonista Jim Carrey, nei panni di Carl Allen. Mi affascinò l'idea di portare sullo schermo la storia vera dell'umorista inglese Danny Wallace, e poi quella cosa del sì incondizionato...
 
E ricordo Barbara Novak, interpretata da Renée Zellweger in Abbasso l'amore. Molto femminista, o femminile, come film. Mi piacque!
Oggi parliamo di Peyton e della cosiddetta Fase Due dell'universo Marvel. Parliamo di Ant-Man.
 
Avevo pensato a questo titolo:"Ant-Man, piccolo ma grande", però mi sembrava banale. Tuttavia è ciò che penso, e provo a spiegarvi perché.
Se penso ai numerosi film Marvel visti negli ultimi anni, penso a qualcosa di "gigantesco". Tipo bomba atomica sullo schermo, un'esplosione di action e comicità, di battute pregne di un fare gigionesco mai fastidioso eppure imponente. Penso a New York invasa dai Chitauri, a Hulk incazzato e sempre più verde che tenta di spaccare un cacciabombardiere.
Per dire.
 
E invece, in questo capitolo che chiude la fase due, tutto è ridotto al dettaglio. Minuzioso e ironico, drammatico ma non troppo, tanto che i rapporti umani vengono appena accennati, fino a dileguarsi nel rispetto del più tipico degli stili Marvel. Il protagonista è Scott Lang, interpretato da Paul Rudd (che io adoro!!!), il quale ha messo mano nella riscrittura della sceneggiatura, e si vede.
Il risultato è quasi un Marvel anomalo, eppure apprezzabile, riuscito. Non cambia e non stravolge l'universo dei supereroi, solo lo guarda da un altro punto di vista. Dal basso verso l'alto.
 
L'effetto spettacolare della battaglia e delle piroette in volo, qui vola basso e porta lo spettatore ad apprezzare quella nuova prospettiva. Grande e piccolo si danno il cambio, finché l'occhio umano non consideri il tutto normale, come se diventare grande e poi di nuovo minuscolo, fosse davvero possibile. L'eroe per caso, qui è un mezzo criminale e un mezzo ingegnere, un papà "confuso" che all'improvviso si ritrova in una faccenda più grande (o piccola) di lui.
 
 
Tutto funziona, a mio avviso, dal punto di vista dell'intrattenimento e della resa scenografica. Mi piace che si parli di missioni portate a termine con un briciolo di strategia, piccolezza e dovizia. Mi piace che per una volta, si guardi al riscatto e ci si arrivi senza sporcarsi troppo le mani.
Non ci sono le scazzottate e gli sbatacchiamenti alla Hulk. Ecco.
Lasciano un po' a desiderare Hank Pym e Hope Van Dyne, per quel che mi riguarda. Soprattutto mi fa strano pensare al predecessore di Scott con le fattezze di Michael Douglas...
Concludo dicendo che, Interstellar e tutto ciò che Nolan abbia saputo scoperchiare, ormai, ha attecchito ovunque. Ovunque vince l'amore, ovunque l'amore trascende il tempo e lo spazio, è lui che tutto può e tutto muove. Lo spazio e il tempo e il ritorno alla vita, in un limbo che Nolan ha saputo raccontare, torna persino nell'universo Marvel e si apprezza.
(Padre - figlia - scaffale di una libreria).
 
Certo alla fine viene a galla una triste verità. Se mai dovesse finire il mondo, io chiamo le formiche...altro che vendicatori!

P.S. Dai che scherzo, Bruce, lo sai che tu sei il mio preferito...

giovedì 13 agosto 2015

Il conto salato dell'ignoranza

 

Ricorderò sempre le parole della spilungona della classe, quella con le tette grosse e i capelli lunghi. Quel fare altezzoso di chi cammina a due metri da terra, convinto di sputare su tutto e tutti e non inciampare mai.
 
Era la mattina degli orali, l'ultima prova della maturità.
Il futuro sulla bocca di tutti, il mio invece cresceva silenzioso, nella mia testa, in mezzo alle lacrime di un pianto isterico, liberatorio.
"È finita - dicevo a me stessa. È finita davvero".
Dentro quella scuola, sbagliata e illuminante, ho seminato il mio futuro. Ho iniziato a farlo senza rendermene conto, senza prevedere nulla.
Il mio professore di Lettere che diceva "Valentì, zitta e scrivi!", io che lo guardavo e già sapevo che non avrei potuto dirgli "grazie" abbastanza.
In quella scuola sbagliata, fatta di derivate e sistemi, circuiti complessi e linguaggi alfanumerici, io ho trovato me stessa.
 
Già, quella morta di fame che si permette addirittura il lusso di studiare Lettere all'università.
Direbbe qualcuno.
"Perché lo hanno detto?"
"Eh...sì".
 
Capii che Lettere era la mia strada, la mia possibilità migliore o semplicemente l'unica possibile.
Volevo insegnare, volevo scrivere, fare la giornalista...
Ed eccomi qui, a trent'anni, che tento disperatamente di far fare i compiti a mio figlio, sette anni.
Che tento di mantenere un decoro, un ordine, un senso del pudore e un occhio sempre aperto, l'altro ancora di più.
La tovaglia ancora sporca, i piatti da lavare, la cesta della biancheria gonfia e minacciosa.
Sono una donna ordinaria o fuori dal comune?
Giusta o sbagliata?
 
Me la cavo, nonostante non abbia una risposta.
Non ancora.
 
D'altronde, chi può avere la risposta?
"Stefano Feltri però ha detto che tu, laureata in lettere, nun c'hai capito proprio gnente. Non solo, co 'sti tempi de crisi te sei permessa pure de fa Lettere, la filosofa, l'aristocratica che penza. Penzi, penzi e t'aripenzi...ma che c'avrai mai da penzà?"
 
Ah. Stefano Feltri...
"Ma chi è?"
- Domando io.
"Va' su Wikipedia e fatte n'idea".
"Ok".
 
1984, giornalista e scrittore italiano.
Vicedirettore de...
"Ah...capito!"
Il Fatto Quotidiano.
 
Questa storia potrebbe finire qui, ma io vado avanti perché sono capocciona, laureata in Lettere, cosa vuoi...estremista, qualcuno direbbe.
Laureatosi alla Bocconi - mmm, e me cojoni!
(Me l'hanno insegnato all'università!!!)
Io alla Sapienza di Roma, pensa.
Radio 24, Il Foglio, quattro pubblicazioni all'attivo...
acciderbolina!
 
Un economista coi fiocchi!
Oggi Stefano Feltri scrive questo, sulle pagine de...sì, lo ripeto: IL FATTO QUOTIDIANO.
 
Tra qualche settimana molti studenti cominceranno l’università. I loro genitori che si sono laureati circa trent’anni fa potevano permettersi di sbagliare facoltà, errore concesso in un’economia in crescita. Oggi è molto, molto più pericoloso fare errori. Purtroppo migliaia e migliaia di ragazzi in autunno si iscriveranno a Lettere, Scienze politiche, Filosofia, Storia dell’arte.
 
"Mamma, perché questo signore ha scritto purtroppo?"
"Amore...PURTROPPO esistono al mondo persone molto, molto pericolose e ignoranti. Ecco, impara a riconoscerle. È molto, molto importante che tu legga certe cose. Fanno l'effetto della spremuta d'arancia che mamma ti prepara dopo la scuola. Le vitamine, ricordi?"
"E io devo bere tutto? Come la spremuta?"
"Bevi, ma poi sputi ciò che non ti piace. Ok?".
"Ok".
 
È giusto studiare quello per cui si è portati e che si ama?
Prosegue Feltri.
(Domandona, eh?)
La domanda, tuttavia, è un'altra.
È giusto studiare quello che mi suggerisce Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano?
La risposta è facile facile. Giuro!
 
I ragazzi più svegli e intraprendenti si sentono sicuri abbastanza da buttarsi su Ingegneria, Matematica, Fisica, Finanza. Studi difficili e competitivi.
Cazzate a oltranza.
Andiamo avanti.
 
Aspetta aspetta, guarda. Feltri ha la risposta che cerchiamo.
"Dai?"
"Eh..."
"Pensa te, troppo forte st'economista oh. Mesà che faccio economia pure io - bella zì".
 
Soltanto se si è ricchi e non si ha bisogno di lavorare, dicono gli economisti. Se guardiamo all’istruzione come un investimento, le indagini sugli studenti dimostrano che quelli più avversi al rischio, magari perché hanno voti bassi e non si sentono competitivi, scelgono le facoltà che danno meno prospettive di lavoro, cioè quelle umanistiche.
 
"Ah...ma è solo un'altra cazzata".
 
E per finire:
 
[...]fare studi umanistici non conviene, è un lusso che dovrebbe concedersi soltanto chi se lo può permettere. L’Italia è il Paese dove questo fenomeno è più marcato. Ma finché gli “intellettuali pubblici” su giornali e tv continueranno a essere solo giuristi, scrittori e sociologi, c’è poca speranza che le cose cambino.
 
Amore di mamma, adesso sei troppo preso da Nicky, Ricky, Dicky and Dawn, ma un giorno mamma ti racconterà una storia. Una storia bella, di quelle che piacciono a te e a tuo fratello.
Parla di una ragazza coraggiosa e ordinaria, che amava tanto i libri e i film in bianco e nero. Una ragazza che, dopo aver scelto la scuola per accontentare gli altri, ha scelto Lettere per accontentare se stessa. Quella ragazza poi è diventata donna, lungo i corridoi di un'Università statale, pagata dal padre, con tanti sacrifici. Ha pianto lacrime vere lì dentro, c'ha lasciato l'anima e tutto ciò che aveva.
Il giorno della tesi, quella ragazza era proprio cambiata. Non era più una bambina sprovveduta, ma una donna un po' stanca e tanto fiera di sé.
Quel giorno c'eri anche tu.
E tuo fratello tirava calci forti, decisi, quasi pronto a venire al mondo.


lunedì 10 agosto 2015

Giulia Carcasi - Io sono di legno

 
 
Caro Diario, mi chiedo se sarai felice di questo tono amichevole, di questo nome proprio.
Ti piace?
Sì lo so, è un nome tipicamente di "cosa", ma ti prometto che tu sarai per me persona.
Intimo amico, che ascolta e basta. Che prende ciò che dico e confesso, e non giudica.
 
Sai, oggi è il mio compleanno. Si insinua per la prima volta un "3", davanti alla mia vita. E un po' fa strano, appesantisce la spensieratezza e schiaccia i ricordi dei tempi andati.
Questa notte ho letto un libro, di cui vorrei parlarti. Si intitola Io sono di legno, l'autrice è una giovane donna, vive a Roma e ha più o meno la mia stessa età. Si chiama Giulia Carcasi
 
Parto con una confessione: ultimamente leggo sole donne. Chi lo sa perché, o forse sì, lo so...
Ti starai chiedendo il perché di questa scelta, il senso più profondo di questa corrispondenza a senso unico. Perché tu lo sai, e io lo so. A te è concesso solamente ascoltare, non puoi dire la tua, anche se tu lo volessi più di ogni altra cosa.
Vuoi sapere perché ho scelto questo libro, quel giorno in libreria?
Il titolo non è sempre decisivo, stavolta invece sì. Lo è stato!
Ho pensato subito:" cavolo, anch'io sono di legno!". E così l'ho preso, senza pensarci su due volte.
Senza capire ancora cosa volesse dire quell'affermazione, che sa di confessione davanti allo specchio.
Ho iniziato a leggerlo prima di cena, nel giro di due ore ero già sul punto di chiedermi: "chissà cosa farà adesso lei...". C'è la pioggia e un ragazzo che aspetta sotto casa. E poi c'è Mia, una diciottenne difficile e diffidente, contraria ai sentimenti e alle promesse. E s'interroga sul futuro, sul corso giusto all'università. E poi di nuovo la pioggia, imparziale. Che bagna il legno e forse sì, riesce addirittura ad ammorbidirlo.
 
Sai cosa mi piace di più di questa autrice?
Le sue impennate poetiche, mai banali o artefatte. Mi piace la metafora quando diventa necessaria, le citazioni se fatte con garbo e gentilezza. E lei ci riesce. Giuro!
Riesce a ricordarti Va dove ti porta il cuore senza che il dubbio di un plagio o un copione prepotente si interponga tra te e le pagine.
Questa storia parla di donne, matrioske incastrate l'una dentro l'altra. Perché lo stabilisce il sangue, non per scelta.
Parla di una madre che aspetta la figlia il sabato sera, la domenica mattina. E di un diario, anzi due.
Madre e figlia che non si capiscono, tanto diverse e tanto uguali.
 
La storia parte da un doppio binario, finché le due voci ad un tratto non fanno che supportare la storia di Giulia, la madre di Mia. Il diario della madre da supplemento diventa prima pagina, e i ricordi di lei si riflettono sui giorni della figlia. Tempi diversi, attese vissute all'insegna delle regole, amori consumati di pomeriggio, quando alle otto tutti a casa!
Sembra che in questo libro tutti gli uomini siano incapaci di amare, e mi è rimasta più di ogni altra, la metafora del corpo di porcellana della madre di Giulia, e le mani del padre che mai la sfioravano. Per paura di romperla. Era il modo migliore di capire la fine dell'amore.
La storia di una donna è sempre complicata. O sposa o puttana, acqua o terraferma.
 
Alcune scelte narrative, e parlo dei risvolti nelle ultime pagine, non le ho del tutto comprese. Voglio dire, io avrei fatto diversamente. Ma chi sono io per guidare una storia che non è mia?
La Carcasi ha una padronanza del linguaggio impeccabile, la invidio.
Però se devo essere sincera fino in fondo, l'idea di Miguel e di un amore scelto per la prima volta e per forza di cose "sbagliato", non mi ha appagata del tutto.
Viene fuori in tutta la sua prepotenza, la conseguenza regina delle parole non dette e della solitudine. Cose che riguardano soprattutto il mondo femminile, inutile negarlo.
Chi s'interroga sul legno e sul perché ci somigli così tanto?
Chi gira il mondo in una stanza?
Chi impara a proprie spese l'egoismo della formica?
 
Non sono femminista, Diario, amico intimo e silenzioso, non fraintendermi!
Però c'è del coraggio nei pensieri di questa autrice, mi piace.
Mi piace credere che Dio si offenda davvero, se un giorno dovessi dimenticarmi di essere felice. Mi piace non aver paura di confessare i miei atti impuri. Mi piace, di tanto in tanto, essere stronza o fare finta. Aggrapparmi alle cose per non scivolare, disprezzare gli altri per non aggiustare me stessa. Per pigrizia, paura.
 
Non voglio annoiarti di più, ma ti lascio con questa che considero l'impennata più alta e divertente dell'autrice. Mia ha diciotto anni, magari a parlare è il ricordo dell'età in cui ci si chiedeva che senso avesse amare qualcuno.
Mi piace perché è senza freno, coraggiosa e incazzata.
Come ero spesso io, allora.
 
"Mi basta solo una parte di loro, la più sporgente, l'unica che non ho. Per il resto un uomo è da buttare".

domenica 9 agosto 2015

KM28 - Simone Avincola

 

Chi può dire quanto duri un viaggio,  e poi come lo misuri il tempo, le cose che ti capitano, la voglia di restare oppure partire...
Non è nemmeno una domanda, piuttosto una riflessione ad alta voce. E non è la mia, di voce.
A dirla tutta è una chitarra e voce. E la voce è quella di Simone Avincola.
 
Di lui torno a parlare sempre volentieri, soprattutto oggi.
Guardo la copertina del suo ultimo album KM28 e penso:"Simò, dev'essere così la vita di un cantautore, eh?".
Una vita palleggiata di qua e di là, da una parte la lentezza, dall'altra la frenesia. Una vita guardata e vissuta ai margini, perché da lì si vede meglio, si vede tutto.
Simone è un poeta moderno,  attento, una via di mezzo tra il cuore solitario da saloon e il vecchio romantico. 
Una voce che viene dal futuro e guarda al passato, o viceversa.
 
I dieci brani che compongono il suo ultimo disco, scritti davvero in autostrada, rubano al tempo odierno tutti i vizi e le virtù che ci contraddistinguono. Il desiderio di scappare, la pazienza che porta invece a restare, ad aspettare. Come si aspetta qualcuno, qualcosa. Nelle piazzole semivuote di un autogrill, dietro le sbarre con l'anima in gabbia e la speranza che sa di libertà.
 
"Magari te incontro dentro a 'n sogno".
Er Fuggitivo
 
E si parla della vecchia Roma, dei tempi andati, Roma Far West.
Di un cuore che si ferma e poi vuole andare via (oppure no), liberato dal tempo e dall'amore. Perché avere un cuore chiuso a chiave è una follia.
KM28 è un album tecnicamente un po' pop e un po' folk, a me piace definirlo crepuscolare. Pregno di stati d'animo contrastanti, un susseguirsi di immagini lente rubate al tempo, mentre il mondo sfreccia e spesso infrange le regole, sbaglia strada, si ferma e poi riparte.
Conta quello che provi mentre corri, io ci credo. Deve crederci pure un cantautore, immagino.
Perché "se domani poi cola il nero sui disegni", non ci resta che tornare indietro. A sfogliare un album che parla ancora di speranza, di quella bellezza che si aspetta in silenzio e poi scompare.
Come er sole quanno piove...

mercoledì 5 agosto 2015

Tra nubi elastiche e colline di piuma

 
 
Mi sembra di rivivere i giorni prima della laurea. Quando in preda a vuoti di memoria e crisi isteriche, mi vedevo sempre più sprovveduta, spaventata.
Ricordo che alla fine, la sola via di fuga da tutti quei dubbi, stava nella bellezza e nell'unicità di quel momento. La mia vita aveva seguito la mia stessa direzione, era andata dove doveva e dove volevo io.
Mai state così d'accordo, io e la vita!
Oggi mi rivedo come allora, davanti allo schermo il riflesso di ciò che sono, e poco distante dal battere incessante delle mie dita, un libro.
 
Quattro anni fa c'erano i saggi di Italo Calvino, raccolti nella collana Meridiani, per Mondadori.
La mia tesi coniugava in un corpo solo, l'amore per il cinema e la letteratura: "Il cinema nella saggistica di Calvino".
Di Calvino amo il suo essere stato, inconsapevolmente, (anche) un grande critico. Lui sosteneva di non esserlo, che lo era piuttosto un Moravia. Eppure, in quelle infinite pagine imparai che la vera critica vive esattamente così, inconsapevolmente.
 
All'alba dei mie trent'anni, e in attesa di veder pubblicato il mio primo romanzo - e lo dico con febbrile incredulità - ho capito che la mia vita, forse quella di ognuno, è segnata, irrimediabilmente, da un libro.
Quando lessi La strada di San Giovanni, capii che il mio mondo prendeva forma e si aggiustava, proprio nel momento che anticipava la visione in sala. Vedere poi non mi bastava, era quando provavo a tradurre le immagini lasciate sullo schermo, che afferravo davvero il senso. Se non trovavo le parole stavo male, e mi avvilivo fino a sprofondare. Quando invece mi venivano incontro tornavo in superficie, respiravo, mi sentivo viva, davvero.
E provavo meraviglia nel condividere così tanti stati d'animo, appartenuti a uno dei più grandi scrittori del Novecento.
Leggevo e sottolineavo tutto ciò che mi portava a dire:"sì, lo provo anch'io, lo penso anch'io!".
Incredibile, Calvino che la pensa come me...
 
No, non è arroganza culturale, nemmeno l'illusione di comparare ciò che si è, con qualcosa di inarrivabile.
Credo sia piuttosto una delle più affascinanti conseguenze dell'amore per la letteratura.
 
Accanto a me, ora, c'è Virginia Woolf. Diario di una scrittrice.
Lo so, sembra assurdo che io e lei abbiamo così tanto in comune. Eppure, qualcosa mi porta a credere che, una volta toccato con mano quel mondo, il suo mondo, ogni donna si senta capita per la prima volta.
E io mi sento così.
 
"Verso le tre del pomeriggio mi sono sentita più felice e più sciolta grazie a questo biasimo che non grazie a tutte le lodi degli altri, quasi mi ritrovassi nell'atmosfera umana, dopo un felice capitombolo tra nubi elastiche e colline di piuma".
 
D'ora in poi, ho deciso, scriverò spesso di lei. Vedrò le cose che mi circondano e arriverò inevitabilmente a confrontare questo tempo, con quello racchiuso e custodito, tra le note di quei respiri e tormenti, tra le pagine pregne di amore e disamore, confessato e fluido come un fiume in piena, alla vita. Perché Virginia Woolf non è stata semplicemente la più grande autrice del ventesimo secolo. Nemmeno la rivalsa delle donne tristi e depresse, del male di vivere che è quasi sempre donna, del desiderio di parità, degli stessi diritti che non dovrebbero nemmeno prevedere anni di lotta o estenuanti prepotenze culturali.
 
Virginia Woolf amava la vita, e per mezzo di lei questa si manifestava. Prorompente, spietata, bella di una bellezza disarmante. La stessa che, a un certo punto, l'ha colta impreparata, stanca.
Quel fiume ha privato per sempre il mondo della possibilità di una pagina nuova, scritta in costante conflitto tra l'anima e il mondo circostante. Ma di lei non può svanire nulla, nemmeno un pensiero, un periodo semplice, una virgola, un sospiro tra le righe. Perché io me la immagino così bene da crederla ancora viva,  pacata e pensierosa?
Una donna viva, riuscita, libera.
Me la immagino intenta a rubare ogni attimo, a infrangere ogni segreto altrimenti taciuto.
Subito dopo l'ora del tè, tra le strade grigie di Londra, agglomerati di gente, capitomboli tra nubi elastiche e colline di piuma


martedì 4 agosto 2015

Prendi la DeLorean e scappa

 
 
Dove andiamo c'è sempre una strada. Oppure no.
E mentre camminiamo il tempo spesso decide.
Oppure...
be' potrebbe anche accadere che "dove stiamo andando non c'è bisogno di...strade".
Doc docet!
 
Sulla scia di questo folle pensiero, prende forma il nostro presente. Le basi del nostro essere, generazione nata negli anni '80, noi. Quelli che, davanti a uno schermo prendono le decisioni più importanti della loro vita. Generazione per sua stessa natura privata della possibilità di scrivere il proprio futuro.
Eppure tutto continua a ruotare, nel tormento e nella gioia effimera, attorno alla più affascinante e sfuggevole impossibilità che è propria del genere umano: viaggiare nel tempo.
 
Cambiare le cose, riscrivere il presente, sistemare il futuro come più ci aggrada. E più capiamo che questa impresa è impossibile, più noi ci ostiniamo nel portarla a termine.
La macchina del tempo aspetta solo di essere scoperta davvero.
Lo crede un sognatore, un appassionato di cinema rimasto incollato a quella poltrona, al 1985...
E lo crede uno scrittore, più di un fisico, più di uno scienziato. Lo scrittore è colui che, senza DeLorean, viaggia nel tempo in sella a una macchina dal numero imprecisato, o meglio infinito, di posti auto.
 
Un'ossessione, un cruccio indomabile destinato a rimanere tale. Ma anche la passione e l'idea radicata di un cult cinematografico insuperabile, quale è, appunto, Ritorno al futuro.
Da qui tutto nasce e tutto si dipana, lungo le pagine di un'antologia davvero esclusiva, pregna di ironia e nostalgia, di rimpianti e sogni perduti.
Diciotto racconti curati da Andrea Malabalia, per i quali autori diversi hanno prestato i loro ricordi e la loro fantasia, che nell'ordine immagino essere "biografica e poi narrativa".
Racconti brevi e accordati sulla stessa nota: il tempo.
Alcuni ancorati alla trilogia di Robert Zemeckis, altri più slegati e liberi.
 
Prendi la DeLorean e scappa smuove alcuni pregiudizi riguardo un genere letterario, ahimè, poco apprezzato, come il racconto. Smuove poi tutta quella gamma di ricordi e emozioni legate alla sala buia, alle battute entrate di diritto nei nostri vocabolari. Smuove e ravviva quel sogno, fatto di viaggi nel tempo che mai accadranno, e lascia aperta la porta alla speranza.
E uno scrittore, nonostante il buio cui è abituato a scontrarsi, al di là dello schermo, sa che la sola possibilità che abbiamo di cambiare il futuro, risiede nella determinazione. La stessa che, con ferocia e disincanto, appartiene al tempo. 
 
"Il tempo...con quanta ferocia si accanisce sulle cose" pensa "con quanta feroce determinazione".
 
Dal racconto di Paolo Zardi, La promessa.
 
Gli autori dell'antologia ispirata alla saga di ritorno al futuro: Davide Bacchilega, Marco Candida, Eva Clesis, Vito Ferro, Roberto Gagnor e Michela Cantarella, Enzo Gaiotto, Manuela Giacchetta, Elia Gonnella, Andrea Malabalia, Christian Mascheroni, Gianluca Mercadante, Claudio Morandini, Gianluca Morozzi, Daniele Pasquini, Giorgio Pirazzini, Giuseppe Sofo, Daniele Vecchiotti, Paolo Zardi.

Edito da Las Vegas Edizioni.

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